Animali e mari, caos sulle banche dati

Università e agenzie governative di soli 10 Paesi detengono la quasi totalità dei brevetti di quasi 13.000 sequenze genetiche associate a 862 specie di piante e animali marini, scrive Sara Moraca su Il Corriere della Sera. Una sola azienda, una delle più grandi compagnie chimiche al mondo, è proprietaria del 47% delle sequenze. A sollevare il problema su Science Advances è stato biologo marino Robert Blasiak, del Centro di resilienza di Stoccolma, specializzato nella Scienza della sostenibilità e nella gestione della biosfera. «Le banche dati sono oggi importantissimi strumenti a disposizione dei ricercatori, che depositano ed utilizzano i dati, anche in ambito genetico e molecolare. Questo affinché i dati siano verificati e validati, e quindi registrati come ‘record’ nella banca dati e disponibili per successivi confronti e lavori», commenta Chiara Lombardi, ricercatrice ENEA. Da una banca dati che comprende 38 milioni di registri di sequenze genetiche associate a brevetti, i ricercatori hanno estratto quelli relativi alle specie marine, che appartengono a 559 enti e spaziano dallo sperma di balena alla manta gigante fino al plancton. Alle università appartiene il 12% dei brevetti, mentre alle altre organizzazioni, quali agenzie governative, privati, ospedali e istituti di ricerca no profit, resta il 4%. «Sono sempre più i ricercatori che ritengono che questi dati dovrebbero essere resi disponibili, per facilitare la collaborazione tra gruppi di ricerca. Per l’industria il discorso è molto diverso: le aziende non possono ‘brevettare’ prodotti derivati da organismi, e dunque presenti in natura, ma utilizzare i loro principi attivi per sintetizzare prodotti nuovi e commercializzabili. Naturalmente, sarebbe auspicabile che qualunque progresso nella conoscenza del mondo naturale, anche da parte delle aziende, fosse reso pubblico e dunque accessibile alla comunità scientifica per un progresso comune» continua Lombardi.

Considerando che solo il 5% degli oceani è stato esplorato, è immaginabile che in un prossimo futuro – quando l’esplorazione dei fondali sarà ancora più agevole- lo sfruttamento di sequenze genetiche di organismi vegetali o animali per la creazione di prodotti, poi messi sotto brevetto, sarà una pratica ancora più diffusa. Per questo è importante comprendere che framework normativo adottare per creare un equilibrio tra interesse pubblico e libertà d’impresa. Una via percorribile, almeno su un piano teorico, potrebbe essere il protocollo di Nagoya, che prevede una giusta ed equa condivisione dei benefici che derivano dall’utilizzazione delle risorse genetiche e offre protezione dallo sfruttamento di ricerche nel sottosuolo all’interno della giurisdizione nazionale. I trattati internazionali come il protocollo di Nagoya, che pur costituiscono uno dei principali strumenti del diritto internazionale, non hanno però forza vincolante per lo Stato che li firma, ma solo in fase di ratifica. «I Paesi che non hanno ancora ratificato il Trattato, non sono obbligati ad adeguarsi a quanto previsto da esso», precisa Fernando Leonini, Professore associato di diritto ed economia delle banche e dei mercati finanziari all’Università Cattolica di Milano. A complicare la situazione, inoltre, c’è il fatto che i due terzi dell’oceano non rientrano nella giurisdizione dei singoli Paesi. Sono però in corso i lavori per la stesura del nuovo trattato dell’Onu sulla conservazione e uso sostenibile della biodiversità nelle aree fuori dalla giurisdizione nazionale, che avrà al centro proprio le risorse genetiche marine.